Nel secondo appuntamento di Raccontarsi ho incontrato Vera Prada: ci siamo conosciute nel 2021 quando, dopo aver letto un mio pezzo sul parebruttismo, mi ha invitata a essere ospite di Spore, il suo progetto sul prenderci uno spazio e far fiorire la nostra voce.
Vera è una persona che da sempre mette al centro le parole: è giornalista e brand storyteller responsabile del team Branded Editorial Content per Hearst Magazine. Dal 2019 si occupa di sindrome dell’impostore, costruendo percorsi di formazione per giovani professionisti e professioniste.
Nella nostra chiacchierata sono emersi tanti spunti: condivido i passaggi chiave qui, ma vi invito ad ascoltare anche l’intervista integrale. È stato davvero prezioso poter parlare con lei di questo tema che ci tocca tanto.
Presentiamoci
«Sono una persona che non smette mai di parlare. Le parole sono sempre state lo strumento con cui mi esprimo meglio. Io non disegno, io o parlo o cucino: questi sono i due modi in cui penso di esprimermi meglio. Parlo o scrivo. Ho sempre utilizzato le parole, le ho sempre sentite come sorelle nel rappresentarmi e nel rappresentare i miei pensieri e quello che vedevo. Sin da quando ero bambina: sono sempre stata una bambina super chiacchierona, chiedevo sempre il perché delle cose e questa cosa in realtà mi è rimasta abbastanza. Penso che la cosa più brutta che mi una persona possa dirmi sia Stai zitta.
È una cosa che in realtà mi è stata detta un sacco di volte: se devo trovare una cosa positiva di aver ricevuto tante volte questa intimazione del Stai parlando troppo, stai zitta, che in realtà vuol dire Stai occupando troppo spazio, rimettiti nel tuo cantuccino che è quello che meriti, ho imparato a farmi amiche le parole per rendere la mia comunicazione efficace.
È questo un po’ quello che faccio nel mio lavoro, accompagnando i brand a trovare le parole giuste per raccontarsi. È un po’ quello che in realtà ho cercato di fare anche con Vite, il progetto in cui raccontiamo le donne le storie i vini delle produttrici vitivinicole italiane.
Mi sono fatta la promessa di non iniziare mai, quando mi chiedono Raccontaci di te, di parlare innanzitutto del lavoro, perché, da lombarda, è una cosa che inizia a starmi antipatica. Sembra che noi lombarde siamo capaci di giudicare una persona solo dal lavoro che fa, ma non siamo solo il lavoro che facciamo, c’è molto altro».
Sul lavoro
«Sono alla guida di un team di sei fantastiche professioniste, sei donne estremamente diverse tra loro, di età e background diversi, che è un vero onore guidare. In realtà nei loro confronti, mi piace sempre dirglielo, mi sento una sorta di facilitatrice: cerco di mettervi in comunicazione il più possibile, di passare quello che so e di gestirci al meglio come team, ma non ho la presunzione di guidare nessuno, cerco di creare l’ambiente migliore possibile perché ognuna possa esprimere quella che è. È la prima volta che faccio il capo, per cui non lo so se lo sto facendo bene: sono molto trasparente, gliel’ho dichiarato dal giorno uno.
Oltre a essere leader di questo team mi occupo di realizzare progetti di brandend content per un grande editore internazionale, Hearst Digital: sono la persona che prende il mano il progetto, lo porta come project manager avanti dall’inizio alla fine, e contemporaneamente sono la persona che realizza i contenuti che nel nostro caso sono articoli e social. Abbiamo anche tutto un mondo legato alle produzioni: chi mi segue mi ha vista dall’altra parte del mondo nascosta in bagagliai di auto sportive per fare interviste: il mio obiettivo è rendere queste markettate meno markettate e più racconti. Per fare tutto questo mi è stato molto d’aiuto il mio background in giornalismo: ho lavorato da freelance prima di arrivare qui e lì ho imparato davvero tanto».
Sulla sindrome dell’impostore
«Il percorso che ho iniziato a fare sulla sindrome dell’impostore, nel 2019, l’ho fatto perché serviva a me. Io sentivo di non essere abbastanza per lasciare un lavoro tossico che mi aveva fatto credere di non essere abbastanza: ho cercato un percorso in Italia che parlasse di sindrome dell’impostore non dal punto di vista psicologico, perché io non sentivo che fosse una cosa io che dovessi curare di me stessa, non l’ho trovato, quindi ho studiato e me lo sono organizzato da sola. È successo che poi ad altre persone servisse, che piacesse il mio approccio: io sono laureata in sociologia, quindi l’approccio con cui ho trattato il tema è esattamente sociologico, e ho scoperto che nel frattempo sono fatti studi sul tema da questo punto di vista.
La sindrome dell’impostore è quella vocina che sentiamo nella nostra testa e che ci dice Che cosa vai a fare tu lì non sei tu la persona giusta, non sei ancora abbastanza preparata, adulta, formata, magra, carina, vestita bene, con i capelli a posto, ma anche abbastanza padre, bianco, sicuro di te… abbastanza quello che vuoi, quello che in quel momento ti fa sentire insicurezza. È quella vocina che sta nella tua testa e che ti impedisce di dare al mondo il tuo meraviglioso contributo.
L’effetto che ha la sindrome dell’impostore è di impedire a persone che sono straordinarie nel loro essere persone di dare il proprio contributo e di partecipare. Immagina tutte le volte in cui abbiamo detto No, questa cosa non la faccio perché non sono ancora abbastanza e non ci siamo andate: non abbiamo partecipato a quell’incontro, non abbiamo detto la nostra in quel meeting… tutte le cose che non abbiamo mai fatto hanno impedito ad altri di conoscerci e di portare un miglioramento nella nostra vita e in quella di altre persone. È davvero un gran peccato».
La sindrome dell’impostore: quattro tappe
«1978: la prima volta che viene utilizzato questo termine in uno studio di due psicologhe americane Pauline Clance e Suzanne Imes, le quali presero un campione di donne e studiarono i loro pensieri: qual era il loro sentire nel loro essere di donne alla fine degli anni settanta negli Stati Uniti rispetto ai loro ruoli di madri o lavoratrici. Notarono che queste donne sentivano di non essere davvero quello che le altre persone pensavano che loro fossero. Quello che accadeva nella loro testa era: Mi invitano da questa parte, loro pensano che io sia bravissima, che io sia una regina della casa, una madre perfetta, ma in realtà non è vero, io non mi sento così, io mi sento in colpa, io non sono così, ho la casa che fa schifo, a lavoro sono un disastro, io mi sento un’impostora, mi hanno scoperto.
2011: Valerie Young, un’altra psicologa americana, fa uscire il libro The Secret Thoughts of Succesful Women. Negli anni dieci del Duemila negli Stati Uniti parte quel femminismo alla Sheryl Sandberg che dice Ragazze, ce lo siamo meritate di uscire di casa e di avere carriere di successo, siamo pronte per conquistare il mondo, facciamolo, perché questo è il passo successivo della nostra liberazione: ci siamo liberate in casa, ci siamo liberate in politica e adesso lo facciamo anche sul lavoro.
Le donne di successo che Valerie Young intervista non si sentono così liberate, si dicono Io di successo, no, non mi ci sento affatto. La psicologa studia questo tema e negli anni successivi amplia la ricerca ad altre categorie: uomini, persone di etnie e classi sociali differenti. Si rende conto così che la sindrome dell’impostore è trasversale a tutte le categorie di persone. Young ha il merito molto grande di aver messo in luce come oggi noi facciamo ancora esperienza di sindrome dell’impostore in particolare quando parliamo di nel lavoro. Questo vale soprattutto per le donne e per tutte le persone appartenenti alle cosiddette categorie discriminate che poi sono tutte quelle persone che non sono maschi bianchi cisgender etero ricchi che vivono da questa parte del mondo e che hanno meno di 70 anni, sostanzialmente quasi tutti.
2018: uno studio del International Journal of Behavioural Science stima che il 70% dei Millennial ha fatto almeno una volta nella sua vita esperienza di sindrome dell’impostore (oggi c’è uno studio più recente che parla dell’84%). Questo studio fa diventare la sindrome un’esperienza quotidiana per la maggior parte delle persone.
2021: sulla Harvard Business Review esce un bellissimo articolo di Ruchika Tulshyan and Jodi-Ann Burey che dicono Stop telling women they have imposter syndrome, finalmente un contributo non psicologico sulla sindrome dell’impostore. Prima di questo studio quello che la psicologia stava dicendo a tutte le donne era Hai un problema tu, tu non ti senti abbastanza, tu ti senti inadeguata. Questo articolo finalmente porta fuori il problema: ci sta sentirsi così, ma non è colpa tua, non è tua responsabilità personale. Il problema è a monte, è sistemico: è un effetto del sistema in cui siamo cresciute.
Vederlo come un problema sistemico ci toglie un po’ di ansia e ci fa sentire meno sole: se è un problema di tutti e tutte, se è un problema sociale, possiamo confrontarci insieme.
In questa storia fatta di tante date mi inserisco io nel 2019 con il mio piccolo contributo, il primo workshop a Milano, Cut it. Poi, una volta che proviamo far stare zitto l’impostore, facciamo fiorire la nostra voce: è nato così il mio progetto Spore».
Cosa c’è dopo la sindrome dell’impostore
«Una volta che dai il taglio alla vocina che dice che non sei mai abbastanza, e, ho seguito quello che hai detto tu Valentina a Spore, che era una cosa bellissima: Quando ho provato a fare le cose ho scoperto che non sono morta, è stata liberatoria, abbiamo tirato tutte un sospiro di sollievo. Su di me questa cosa è stata liberatoria in quel momento, ma avere la legittimazione che posso fare le cose senza morire, mi ha fatto iniziare a dire di sì a tutto quanto.
Il pezzo successivo della mia sindrome dell’impostore è sfociato nel mito della super donna, il voler far tutto. Le due cose sono collegate: ne hanno scritto anche Maura Gancitano e Andrea Colamedici nella Società della performance.
Ho notato questa cosa: quando noi donne, che siamo abbastanza, iniziamo a fare mille cose bellissime, mettiamo su casa, famiglia, lanciamo progetti… arriviamo a un certo punto per cui non ce la facciamo più. Forse bisogna astrarsi da queste sindromi e questi miti e aprire un discorso più ampio. Se il problema è sistemico è sociale, è utile affrontare ogni singola sfaccettatura dandole un nome particolare, ma così si parcellizza tutto. Un gruppo di persone che hanno pensieri parcellizzati sul loro essere oppresse, è un gruppo di persone che non si organizzerà mai per cambiare le cose».
Un problema sistemico
«La sindrome dell’impostore non ha connotazione di genere, non la può più avere. Se siamo cresciute e cresciuti con immagini e narrazioni fatte in un certo modo, nel momento in cui ci rendiamo conto che non corrispondiamo, è chiaro che non ci sentiamo a posto, non ci sentiamo abbastanza. C’è una cosa molto bella che dice Valerie Young: La sindrome dell’impostore è la differenza di potenziale tra chi siamo e chi abbiamo imparato che dovremmo essere per fare una certa cosa.
Sheryl Sandberg nel suo libro Lean In dice: Come può una donna anche solo immaginare di fare carriera se non ha mai visto un’altra donna fare carriera?
Quello che io sento è il risultato di un sistema che si è costruito intorno a me e che ha come effetto questa distanza tra le mie idee e il mio sistema di appartenenza e il valore che la società le dà.
Chi è l’impostore? La risposta più facile è dire sei tu. No, non siamo noi: l’impostore parla con la nostra voce, che è quella che abbiamo in testa, ma è in realtà il sistema culturale in cui siamo cresciute che ci ha insegnato che certe persone possono fare delle cose e altre persone non possono farle e se ti capita che tu non sei quella persona lì, ti convinci che non puoi».
Come combattere la sindrome dell’impostore
«Iniziamo da un esercizio di consapevolezza: “Sto dicendo di no perché davvero necessito di studiare un po’ di più o perché mi sento non abbastanza e ho paura di non essere all’altezza?”».
«Proviamo a usare la nostra voce, mettiamoci alla prova prima in situazioni piccole. Magari su un palco davanti a tante persone non me la sento, ma in una diretta Instagram sì. Magari riesco a portare questa cosa sul lavoro. Tante piccole prove di sopravvivenza, tante esperienze di non morte. E ogni volta che faccio un’esperienza così, la festeggio».
«E poi fare rete nel senso di dirselo, condividere di più queste esperienze di normalità. Fare una domanda in più quando ci invitano, chiedere e capire».
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